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I Porti e le Difese Costiere Anti Nave e Anti Aeree
di Alberto Rosselli
Nel 1936, dopo avere ultimato le vittoriose operazioni militari contro l’Etiopia del Negus, il Comando Supremo della Marina Italiana, che tanto aveva contribuito, nel corso del conflitto 1935-1936, alla vittoria degli eserciti di Roma, si pose il problema, complesso ma ineludibile, di creare lungo le coste del nuovo Impero d’Africa Orientale una serie di strutture ed infrastrutture portuali in grado di consolidare e proteggere le nuove vaste conquiste africane.
Secondo gli esperti della Regia Marina, soltanto attraverso il potenziamento e la difesa dei principali scali eritrei e somali (Massaua, Assab, Dante, Mogadiscio e Chisimaio) l’Italia avrebbe potuto garantire la completa pacificazione ed un normale sviluppo economico dei territori suddetti e soprattutto la permanenza in Oceano Indiano e nel Mar Rosso di due squadre navali composte anche da unità pesanti di superficie. Già durante il corso della guerra con l’Etiopia, il genio militare della Marina e dell’Esercito aveva provveduto a ristrutturare, almeno in parte, i vecchi approdi di Massaua e di Mogadiscio, ma questi lavori (che inclusero, tra l’altro, la costruzione di ospedali, caserme e officine; l’allestimento di una stazione di carica per sommergibili; l’installazione di ben 20 serbatoi di nafta, distribuiti tra Massaua, Assab, Dante, Mogadiscio e Chisimaio; due depositi di carbone, sei di munizioni, due di torpedini, due di viveri e acqua; il trasferimento, a Massaua, di due bacini galleggianti per unità da 7.500 e 1.600 tonnellate) non risultarono comunque sufficienti in vista dei nuovi impegni derivanti dall’evolversi, per nulla positivo, dei rapporti diplomatici con Francia e Inghilterra che, come è noto, non vedevano di buon occhio l’allargamento della presenza italiana sulle rive dell’Oceano Indiano. Verso la fine del 1936, fu poi avviato un programma per provvedere urgentemente alla protezione armata degli scali, almeno i più importanti (Massaua, Assab, Mogadiscio e Chisimaio): un piano che purtroppo non venne mai portato a compimento nella sua globalità per mancanza di fondi e di tempo. Comunque sia, nel periodo compreso tra la fine del ’36 e lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, il Comando di Massaua riuscì, meglio di altre piazzeforti, ad allestire una rete abbastanza completa di centri cognitivi di difesa (stazioni di vedetta e segnalazione, stazioni radiotelegrafiche, di identificazione e di avvistamento contraerei) collegati ad un sistema di batterie antinave e antiaeree. Nella fattispecie, batterie di piccolo e medio calibro (composte da pezzi da 76/30 AA, 74/40 AA, 76/50, 102/35, 120/45 e 152/45) furono installate nell’area della base e su parte delle isole che formano l’arcipelago ad essa antistante (le Isole Dahlach). I cannoni furono affiancati da nove cellule fotoelettriche da 120 e 150 cm. Per quanto concerne la difesa passiva, questa poggiava su sbarramenti di torpedini tipo “Bollo” ed ex austroungariche (gli ordigni vennero adagiati sui fondali delle Dahlach dal posamine Ostia e dalla nave coloniale Eritrea). Anche una delle tre locali batterie (quelle di Ras Garibale, Ras Gombo, Om ed Baker) di Assab si trovava su un’isola, quella di Fatma, mentre l’entrata della rada era sbarrata da due campi minati deposti dal caccia Pantera. A protezione del porto (nel corso della guerra, data la sua vicinanza ad Aden, subì numerosissimi attacchi da parte dell’aviazione inglese) erano alcune mitragliere da 13.2 millimetri. Ad Assab risultavano inoltre installate tre fotoelettriche da 120 cm. Complessivamente, il 9 giugno 1940, 30 batterie (11 di medio e 19 di piccolo calibro) difendevano i due scali italiani d’Eritrea. Per quanto concerne le difese di Chisimaio, queste, sempre alla stessa data, erano composte da un numero veramente esiguo di pezzi: due batterie da 120/45, quattro da 76/40, una batteria dell’esercito da 120.25 e una decina di mitragliere Breda da 13.2 e da 6.5 (buona parte delle armi erano piazzate sull’isola dei Serpenti e su quella dei Pescicani). Poco prima dello scoppio della guerra, il responsabile della base, capitano di vascello Fucci, propose al Comando di Addis Abeba di rinforzare il sito con cannoni da 152 millimetri e di spostare quelli presenti da 120 nelle località di Dante e Burgao. Ma nulla di tutto ciò venne realizzato. La base di Mogadiscio e, soprattutto, la località di Dante erano, alla vigilia della guerra, di gran lunga le meno difese (Dante, addirittura, non disponeva neanche di un cannone). Mogadiscio, nonostante fosse la più grande città somala, era protetta da una sola batteria di quattro pezzi da 120/45 gestita da personale della ‘Milmart’, e da una mezza dozzina di mitragliere da 13.2, mentre da parte di terra, la città non disponeva di alcuna batteria fissa. Complessivamente, le basi navali italiane di Eritrea e Somalia potevano fare conto su 4.500 tra ufficiali, sottufficiali e soldati, in buona parte dislocati a Massaua. Dopo la caduta del grande bastione difensivo eritreo di Cheren (dove per un lungo periodo, dal 31 gennaio al 27 marzo, i reparti italiani d’Africa Orientale erano riusciti a respingere, al prezzo di perdite pesantissime, l’avanzata della potente armata britannica proveniente dal Sudan), i reparti blindati inglesi dilagarono, appoggiati dall’aviazione, in tutta la regione, conquistando Asmara (31 marzo) e minacciando subito la base di Massaua, protetta da un debole schieramento di forze totalmente privo di armi controcarro. Prevedendo questa drammatica eventualità, fino dalla metà di gennaio del ’41 il Comando della base aveva cercato di allestire in tutta fretta nuove difese (fossati anticarro, trincee e postazioni per artiglieria), sia fronte a mare che fronte a terra, proprio per cercare di resistere il più possibile all’imminente ed inevitabile sfondamento nemico del fronte di Cheren. Il Comando italiano, sapendo bene di non potere fare conto su alcun consistente aiuto da altri fronti o dalla madrepatria (ricordiamo che l’Africa Orientale si era trovata praticamente isolata dall’Italia fin dallo scoppio della guerra), cercò innanzitutto di recuperare tutto il materiale e le armi che potevano essere rintracciati sul posto. A Massaua, il contrammiraglio Mario Bonetti (comandante della base) improvvisò alcune batterie utilizzando 4 su 7 pezzi da 102/35 millimetri della torpediniera Acerbi danneggiata gravemente da un attacco aereo inglese, ed anche i complessi binati da 120 millimetri del cacciatorpediniere (ex esploratore) Leone , andato in secca nei pressi delle isole Dahlach, vennero piazzati a difesa. Vennero posti in batteria perfino alcuni vecchissimi pezzi Skoda (risalenti al primo decennio del secolo) scovati nei magazzini e, con un colpo di fortuna, furono rintracciati (nella stiva di una nave tedesca bloccata in porto) e subito utilizzati 12 cannoni Krupp da 75/22 millimetri destinati in origine all’emiro dell’Afghanistan, (a Chisimaio, nello stesso tempo, il comandante della piazza riuscì a fare “costruire” quattro artigianali cannoncini anticarro utilizzando le canne da 25 millimetri solitamente adoperate per i tiri “ridotti” dei medi calibri). E per quanto riguarda le difese antiaeree, ufficiali e soldati si diedero da fare per costruire postazioni nelle quali piazzarono, su affusti costruiti sul posto con pochi mezzi ma molta fantasia, alcune decine di mitragliatrici Breda Safat da 7.7 e 12.7 millimetri ricavate da nostri aerei gravemente incidentati ed irrecuperabili. Alla vigilia dell’attacco inglese a Massaua (condotto dai carri pesanti Matilda dai pezzi da 88 e 122 millimetri e dalle fanterie dalla 7ma brigata anglo-indiana, dalla 10ma inglese e da reparti francesi gollisti) le forze italiane ed eritree agli ordini del contrammiraglio Bonetti e dei generali Tessitore, Bergonzi e Carnimeo (l’”eroe” di Cheren) dispongono in tutto di 6.500 tra soldati e marinai, 80 pezzi d’artiglieria (55 dei quali puntati verso l’entroterra) e un centinaio di mitragliatrici (compresi alcuni impianti da 40/39 provenienti forse dalla torpediniera Acerbi o dalla Orsini) , più le batterie delle poche navi ancora presenti nella base. Nel dettaglio, gli italiani schierano a difesa del fronte cielo e mare dei seguenti complessi: BATTERIE TERRAFERMA ANTIAEREI: Quota 21 (4 pezzi da 76/40) recuperata dalla cisterna Niobe Moncullo (4 pezzi da 76/40) Otumlo (4 pezzi da 76/30) Amateri (4 pezzi da 76/40) M.Nadi (4 pezzi da 76/40) ANTINAVE: I.Sceik-Said (4 pezzi da 76/40) multipurpose Ma.173 (4 pezzi da 76/40) multipurpose Ma.370 (3 pezzi da 102/35) Maffei di Baglio (4 pezzi da 120/50) BATTERIE SU ISOLE Capo Grabau (3 pezzi da 120/45) Isolotto Assarca (2 pezzi da 76/30) I. Shumma Quarto (4 pezzi da 120/45) Dahlach Chebir (4 pezzi da 102/35) Isolotto Dur Gaam (3 pezzi da 120/45) 2 recuperati dal caccia Nullo I.Dehel (3 pezzi da 152/45 + 4 da 120/45) I. Sceik-al-Abù (2 pezzi da 76/50) I.Hamil (4 pezzi da 120/45) L’8 aprile, dopo un primo tentativo di sfondamento respinto dai granatieri e dalle guardie di finanza italiani, una massa sferragliante di carri inglesi, appoggiata dal tiro d’artiglieria, riesce a rompere l’anello difensivo a monte di Massaua, penetrando nell’abitato. Mentre, nel frattempo, l’aviazione britannica di base a Perim e Aden martella gli ultimi capisaldi. Ciononostante, alcuni reparti italiani tentarono una disperata resistenza ma vennero travolti, anche perché gran parte dei cannoni di cui disponeva la base non poterono intervenire poiché posizionati specificatamente per la difesa antinave. Il 7 e l’8 aprile, la torpediniera Orsini , sebbene menomata nell’armamento, bombardò fino all’esaurimento delle munizioni colonne motorizzate inglesi nei pressi di Embereni, circa 20 chilometri a nord di Massaua, ormai di fatto in mano britannica. Caduta la base, diversi gruppi di marinai, artiglieri e mitraglieri italiani continuarono tuttavia a resistere sulle isole, grazie alle scorte di viveri e acqua preventivamente accumulate. All’alba dell’8 aprile, poche ore prima dello sfondamento inglese, il contrammiraglio Bonetti, dopo avere dato l’ordine di affondare tutte le unità all’imboccatura del porto onde ostruirlo, aveva anche fatto partire una flottiglia di rimorchiatori e bettoline cariche di rifornimenti alla volta delle isole Dahlach. l 16 aprile, il comandante Pierantoni, che era a capo degli ultimi reparti decisi a resistere sulle isole, optò però per la resa e dopo avere fatto distruggere tutti i pezzi e le armi, ordinò ai suoi di cessare i combattimenti. Una sessantina di soldati preferirono comunque continuare a lottare e, recuperati da una flottiglia di sambuchi inviata da Assab, andarono a porsi agli ordini del capitano di vascello Bolla che li fece trasferire nella sua base. Per la cronaca, Assab (ancora difesa da 5 batterie da 76/40, 120 e 152 millimetri e da una mezza dozzina di mitragliere singole da 13.2 millimetri, più alcuni pezzi dell’esercito da 65 e 77 millimetri) sarà l’ultima base navale italiana a cedere le armi. E ciò avverrà soltanto l’11 giugno del ’41 quando dopo una serie di pesanti bombardamenti aeronavali inglesi la guarnigione fu costretta ad arrendersi. Non prima di avere abbattuto - con l’ultima Breda da 13.2 ancora efficiente - un bombardiere leggero inglese Bristol Bleheim: il ventisettesimo tirato giù nell’arco di una guerra sfortunata. |
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