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L’evoluzione della Flotta Sottomarina

di Cristiano D'Adamo

Alcuni autori datano l’invenzione del sottomarino, o almeno il suo sviluppo concettuale, intorno al XV Secolo in Inghilterra, ma la vera rivoluzione della guerra sottomarina cominciò negli Stati Uniti. Alla fine del XVIII Secolo John Phillip Holland, un ingegnere di grande talento di origini irlandesi e fortemente anti-britannico, sviluppò il primo sommergibile moderno: L’Holland. Il sesto prototipo, denominato Holland VI, cominciò una serie di prove tecniche in mare nel marzo del 1898 dimostrando sin dall’inizio eccezionali capacità belliche. La Marina statunitense acquistò il battello denominandolo USS Holland, dando così inizio all’illustre storia del “silent service” (l’arma silenziosa), il corpo sommergibili della marina statunitense. Le capacità dell’ingegnere Holland diedero vita alla famosa Electric Boat Company, mentre una replica autorizzata del suo prototipo fu costruita dai famosi cantieri scozzesi Vickers di Glasgow. La Royal Navy fu lenta nell’accettare la nuova arma, ma nel 1903 aveva già armato cinque battelli del tipo Holland, mentre gli Stati Uniti ne avevano già sette.

L’Italia, che al tempo stata emergendo come potenza navale, condusse degli esperimenti sin dal 1890, anno della costruzione del primo prototipo denominato “Delfino”. Questi era un battello completamente elettrico costruito dall’arsenale di La Spezia. Il battello diede buoni risultati: era stabile e ben manovrabile, ma a causa dell’assenza di un motore a combustione interna, la sua autonomia era alquanto limitata; malgrado ciò, il battello fu di grande importanza nell’addestramento degli ingegneri navali in questo nuovo e complesso campo.

Il periodo precedente alla Grande Guerra ebbe un’importanza enorme nel definire la natura tecnica dell’arma, inducendo varie marine a creare piani pratici e teorici per l’integrazione dei sommergibili nei gruppi tattici già esistenti. Uno dei fattori di grande importanza fu il disegno base dei battelli stessi, e due metodologie ben distinte furono seguite nell’organizzare i sistemi d’immersione ed emersione dei battelli. Le due soluzioni furono il sistema a scafo semplice, in gran parte di concezione statunitense, ed il sistema a doppio scafo parziale di concezione francese e più tardi migliorato dai tedeschi. L’ingegnere italiano Cesare Laurenti, utilizzando il concetto di origine americana dello scafo semplice, introdusse una terza soluzione che prevedeva una cassa di compensazione interna allo scafo. Le innovazioni italiane, soprattutto nel settore della sicurezza, si utilizzarono per decenni, infatti i battelli italiani furono equipaggiati con sistemi di salvataggio che non furono mai presenti sui battelli nordamericani.


Questi nuovi sommergibili, più grandi e potenti, causarono una evoluzione del loro impiego strategico. I primi modelli furono usati solamente per missioni lungo la costa, protezione dei porti e qualche missione che non richiedesse velocità e autonomia. I nuovi battelli erano più veloci ed in grado di rimanere in mare per periodi lunghi e così si pensò di utilizzarli quale parte della flotta – un concetto caro all’ammiragliato britannico e statunitense – o contro navi mercantili – un concetto che si sviluppò con i tedeschi ad un livello quasi scientifico. E’ da considerare che nella prima parte del XIX Secolo affari marinareschi coinvolgevano principalmente la Gran Bretagnia e la Royal Navy. Quale flotta più potente del mondo, la Royal Navy definì gli standard per tutte le altre marine a seguire. I britannici erano molto tradizionalisti, settari e intrinsecamente legati alla potente industria bellica nazionale così che favoreggiavano grandi vascelli, potenti e fortemente armati: le navi da battaglia (molto più lucrative dei sommergibili). Nel 1904 in manovre navali condotte al largo di Portsmouth, gli “Holland” britannici, in pratica sommergibili molto rudimentali, riuscirono a simulare il siluramento di quattro corazzate britanniche. Quest’episodio forse fu notato, ma la Marina britannica dovette aspettare fino all’arrivo del primo lord del mare Jackie Fisher prima che alcuni cambiamenti potessero iniziare.

Ancor prima della Grande Guerra, gran parte delle Marine più potenti avevano sviluppato una forza sottomarina. La Gran Bretagnia aveva 92 battelli, la Francia 52, la Russia 48, la Germania 38, gli Stati Uniti solamente 30 e l’Italia 20. Il Giappone, con solo 13 battelli era il meno fornito. L’Italia adottò un logica che avrà molte ripercussioni durante il secondo conflitto mondiale: aveva già frazionato la flotta sottomarina in varie classi di costruzione. Al già menzionato Delfino si aggiunsero il Foca, l’Atropo, 8 battelli della classe Medusa, 5 della classe Glauco, 2 della classe Pullino, 2 Nautilus, per poi introdurre gli Argonauta, Balilla e Pacinotti.

I battelli tedeschi stavano dimostrando la loro superiorità soprattutto grazie alla qualità superiori dei loro motori diesel ed i cantieri del Muggiano (La Spezia) cominciarono ad utilizzare simili apparati prodotti dalla FIAT e dalla C.R.D.A. Questa tendenza verso l’autarchia, la produzione domestica di tutta la componentitista, diventerà onnipresente nello sviluppo della forza sottomarina italiana, ma inoltre riflette la presenza di una costate tensione ai vertici della Regia Marina e l’inabilità dell’arma di definire chiari standard di costruzione. Va notato che alcuni dei progetti erano stati sviluppati dalla Marina stessa, mentre altri dalle aziende private, così che gli interventi politici e gli interessi finanziari diventarono parte di una complessa strategia.

Un altro aspetto dell’evoluzione della forza sottomarina italiana che non dovrebbe essere ignorata fu il suo ruolo in seno alle dottrine sviluppate dalla Marina in questo periodo. Dopo la conclusione della Prima Guerra Mondiale, l’Italia ed altre nazioni dovettero far fronte ad una severa crisi finanziaria. Nel caso dell’Italia, problemi economici, sociali, e politici crearono una situazione fertile per l’ascesa al potere del partito Fascista. La Marina, forse catalizzata dagli avvenimenti che la circondavano, entrò nella controversia tra la “Jeune ècole” e la “vecchia scuola”. La nuova scuola dichiarò molto apertamente che la guerra appena finita aveva dimostrato che navi più grandi erano vulnerabili ad attacchi di navi più piccole, un argomento certamente in favore della forza sottomarina. Così come in altri paesi europei, i creatori del pensiero filosofico della Marina si divisero in due correnti; coloro che credevano che il sottomarino era una nuova e decisiva arma e coloro che proposero i successi della guerra sottomarina, in gran parte tedeschi, quale risultato della mancanza di preparazione da parte delle forze di superficie. Questo divario, fu detto, era stato colmato ed il sommergibile era ora altamente vulnerabile.

La dottrina navale italiana si stava sviluppando sotto l’impeto della diatriba accademica tra l’Ammiraglio Bernotti della nuova scuola e l’Ammiraglio di Giamberardino della vecchia scuola. Quest’ultimo fu scrittore prolifico la cui carriera fu probabilmente il risultato del suo lavoro intellettuale. Altrettanto importante, durante questo periodo, fu il comandante Giuseppe Fioravanzo il quale, rifiutando il concetto della “battaglia finale” del di Giambernardino, propose una posizione più difensiva basata sulla maggiore utilizzazione delle unità leggere, specialmente i sommergibili. Nel 1922 l’Ammiraglio Bernotti riaprì l’Istituto di Guerra Marittima, ma nei diciotto anni che seguirono, l’Italia non stabilì una dottrina navale inclusiva di tutti gli elementi navali, limitandosi a quello che potrebbe consideransi un approccio alquanto semplicistico: eguagliare la Francia o pagarne le conseguenze.
La più chiara dimostrazione della differenza tra le buone intenzioni della Marina e i risultati concreti si possono riscontrare nei documenti dell’Ammiraglio Guido Po che nel 1940 scrisse che la strategia navale italiana era basata sul:
(1) L’uso offensivo delle navi da battaglia e dei sommergibili in gruppi d’attacco. L’uso della posizione geografica dell’Italia nel Mediterraneo per interrompere le linee di comunicazione del nemico.
(2) Cercare la massima collaborazione con la Regia Aeronautica per sopperire alla mancanza di portaerei.
Un’analisi della Marina italiana nella seconda guerra mondiale va al di la di questa discussione, ma va detto che molti di questi concetti furono certamente venuti a mancare e che in pratica la Marina operò contro i suo principi stabiliti. Il punto che è certamente parte di questa discussione e l’utilizzazione dei gruppi d’attacco per i sommergibili. Questa strategia, basata sull’esperienza della marina tedesca durante la Grande Guerra, fu in pratica una delle poche aree in cui la mancanza d’adempienza alla dottrina ufficiale produsse i risultati più grandi.

Durante la Prima Guerra Mondiale, i tedeschi intuirono immediatamente che il blocco imposto contro di loro avrebbe presto portato all’esaurimento di materiale d’importazione d’importanza vitale. La Germania ha risorse naturali in abbondanza, ma non ha minerali rari ed altro materiale necessario all’industria bellica. Per bilanciare la situazione, la Germania dovette imporre simili restrizioni su i suoi nemici e soprattutto sulla Gran Bretagnia. La guerra sottomarina era solo in parte regolata dagli accordi dell’Aia, ed in genere queste regole erano datate e non avevano preso in considerazione l’evoluzione tecnica del sommergibile. Quindi, quest’arma era soggetta a limiti concepiti per i combattimenti di superficie. In pratica, nell’attaccare navi nemiche, il sommergibile doveva venire in superficie, identificarsi, ispezionare il vascello nemico, permettere all’equipaggio di allontanarsi per poi affondarlo.

Queste regole quasi medioevali che ci ricordano la “singolar tensone” di un’era da molto passata, verrà sorprendentemente rivisitata dai primi battelli italiani nelle prime fasi della guerra nell’oceano atlantico. Due importanti evoluzioni tecniche fecero sì che questo tipo di guerra fosse obsoleto: primo, le navi cominciarono ad essere equipaggiate con apparecchi radio, così da poter segnalare la presenza di un sommergibile nemico. Secondo, anche le navi mercantili cominciarono ad essere equipaggiate con cannoni ben capaci di provocare seri danni alla delicata struttura di un sommergibile. La decisione tedesca di passare dalla guerra con restrizioni a quella senza fu inevitabile. Malgrado le lamentele americane in riguardo al “barbarismo” della guerra senza restrizioni, in realtà il conflitto aveva già raggiunto un livello di barbarismo senza precedenti con l’eccidio in massa di truppe al fronte, il bombardamento di obbiettivi civili, deportazioni, l’uso di gas tossici, ed altri mezzi di distruzione di massa. Quindi, i sommergibili emersero come la “peste dei mari”, ma allo stesso tempo quali efficientissime armi da guerra. Considerando che durante il periodo più critico ben il 25% del traffico diretto alla Gran Bretagnia fu affondato, i successi della flotta sottomarina germanica non ebbero precedenti, furono inaspettati, e quasi riuscirono a cambiare le sorti della guerra. Quest’ultimo aspetto va ricordato chiaramente perché contribuì a formare la dottrina navale italiana della Seconda Guerra Mondiale. La guerra sottomarina tedesca non si limitò al Mare del Nord e l’Atlantico, ma raggiunse anche il Mediterraneo dove i battelli tedeschi attraversarono con facilità lo Stretto di Gibilterra e quello d’Otranto, raggiungendo i porti austriaci. Questo è un altro aspetto che dovrebbe essere preso in considerazione; le barriere geografiche non limitarono necessariamente l’efficacia del sommergibile, ma le perdite tedesche in Mediterraneo evidenziarono che in certe circostanze le perdite aumentano drammaticamente. Con la fine dell’orribile conflitto mondiale, ed i problemi sociali, economici e politici che investirono l’Europa ed il resto del mondo negli anni venti, quanto appreso durante il conflitto sottomarino andò dimenticato quasi come ci fosse stata una amnesia collettiva.

In generale, la posizione dell’Italia era precaria. La nazione aveva partecipato alla Grande Guerra, sofferto grandi privazioni, ma aveva ricevuto ben poco in cambio. Nonostante l’espansione territoriale in territori precedentemente austriaci ma con popolazione italiana, l’Italia era ancora la più debole delle grandi potenze. L’industrializzazione del paese era ristretta al triangolo industriale di Torino, Milano e Genova mentre le altre regioni rimanevano in svantaggio economico, con pochi mezzi di comunicazione, in gran parte agricole utilizzando ancora metodologie antiquate. La conferenza sugli armamenti di Washington aumentò la considerazione della Marina italiana, soprattutto perché riuscì ad ottenere il suo principale scopo: la parità navale con quello che era considerato il nemico numero uno: la Francia.

L’attrito tra le due nazioni risaliva al regno di Napoleone III e all’opposizione francese per la creazione di un’identità nazionale italiana. Il paese era governato da un monarca le cui origini erano distintamente francesi, ed il regno era stato creato solo di recente. L’Italia, l’equivalente in Europa del “zotico arricchito” stava cercando di diventare uno dei paesi principali. Infatti, l’abbandono italiano della triplice alleanza a favore della Francia e della Gran Bretagnia non fu altro che un azzardo ben calcolato, e non un’azione in supporto delle democrazie europee verso i governi centralizzati della Germania e dell’Austria.

Durante la Grande Guerra, la Regia Marina non ebbe un ruolo importante, almeno che non si consideri l’affondamento di una nave da battaglia austriaca da parte dei mezzi insidiosi verso la fine del conflitto. Con l’avvento di un nuovo governo dopo la Marcia su Roma del 1922, il nuovo primo ministro Benito Mussolini seguì una politica navale marcatamente più aggressiva. Mussolini, oltre a consolidate il suo potere, riconobbe immediatamente il valore in una forte Marina, dedicando così i pochi mezzi dell’Italia alla costruzione di una marina di prima classe, di qualità superiore, moderna, potente, e ben equipaggiata. Questo ruolo di prima donna delle forze armate andò però condiviso con la Regia Aeronautica, mentre l’esercito rimase indietro.

Mentre i debiti si accumulavano, il governo italiano mantenne un equilibrio abbastanza difficile tra le risorse disponibili e le crescenti richieste dovute alla nuova posizione militare di prestigio. I cantieri navali potevano certamente trarre beneficio dall’astinente tecnologia navale italiana, ma soffrivano di mancanze croniche di materiale che doveva essere importato. Anche se gran parte della tecnologia nel settore propulsori e artiglieria era di origine anglosassone, l’industria italiana era riuscita a sviluppare una identità nazionale producendo navi di qualità eccellente in grado di vincere il “Blue Ribbon”. Quale parte di questo febbrile programma navale, la Regia Marina sviluppò una delle flotte sommergibili più grande del mondo e seconda solamente all’Unione Sovietica in termini di numero di battelli. I battelli italiani, così come avvenne nel periodo precedente alla guerra, furono costruiti da molteplici cantieri e seguendo progetti radicalmente diversi.

Una flotta di sommergibili non è solamente un assemblaggio di battelli allineati lungo un molo e con il gran pavese in bella mostra. I sommergibili, a causa della loro complessa natura tecnica, richiedono istruzione specializzata ed una nuova classe di marinai. La Marina stabilì tre scuole sommergibili: oltre alla ben nota Accademia Navale di Livorno per gli ufficiali, le scuole sommergibili furono istituite specificatamente per istruire il personale destinato ai sommergibili, in gran parte sottufficiali. Le operazioni necessarie all’uso del sommergibile quale mezzo offensivo erano molto complesse. Malgrado ciò, all’entrata in guerra dell’Italia, la mancanza di personale specializzato era uno dei fattori più importanti nel limitare le operazioni dei sommergibili. Questa mancanza di personale era tipica di tutte le marine dato che la dura vita a bordo, e le condizione non propriamente salutari a bordo di battelli con motori diesel, non consentivano permanenze inoltrate, per non citare le altissime perdite a causa di eventi bellici.

Le forze sottomarine erano organizzate sotto un comando centrale, ma questa struttura doveva adempiere ad una varietà di necessità tattiche. I sommergibili italiani dovevano difendere le coste, intercettare naviglio nemico, condurre esplorazioni per la flotta, trasportare materiale bellico, e posare campi di mine. In pratica, la flotta sommergibili aveva una varietà di battelli costruiti per una varietà di scenari di guerra che non si verificarono. Il nemico mortale dell’Italia, la Francia, si dissolse sotto l’impeto dell’offensiva tedesca della primavera del 1940 a l’Italia si trovò faccia a faccia con la possente Royal Navy. Nonostante lo scenario di un possibile conflitto con la Gran Bretagnia fosse stato studiato durante la crisi etiopica, questi studi furono limitati e di conseguenza il comando navale si trovò a affrontare una situazione inimmaginabile: dover condurre una guerra offensiva.

Mentre alla flotta fu assegna la difesa del traffico con l’Africa Settentrionale, l’Egeo e l’Albania, ai sommergibili fu assegnata la difficilissima responsabilità di intercettare ed affondare il traffico britannico. È interessante notare che dopo la dichiarazione di guerra, all’aviazione e all’esercito furono date direttive molto conservatrici, se non ordini di mantenere la difesa, mentre alla Marina fu chiesto di dare il massimo nell’impegno offensivo.

Il resoconto della guerra sottomarina in Mediterraneo fu misero con poco più di 100.000 t.s.l. affondate ed un gran numero di perdite. Altri sommergibili furono mandati in A.O.I. e successivamente in Atlantico. Il primo gruppo, nonostante una strategia sviluppata prima della guerra, non raggiunse risultati di rilievo, mentre il gruppo operante in Atlantico, malgrado condizioni che non si sarebbero potute prevedere, fu in grado di scrivere alcune delle pagine più illustri della storia dei sommergibili della Marina italiana. In pratica, dove si pianificò si fallì, e dove s’improvvisò si ottenne successo.

Con l'espansione dell'Italia in Africa Orientale si sarebbe dovuto provvedere, sebbene gli approdi fossero limitati, ad una più massiccia presenza nel Mar Rosso e in Oceano Indiano per impedire il traffico marittimo britannico. Sfortunatamente, a causa della carente pianificazione, materiale difettoso, e mancanza di rifornimenti, il flagello italiano venne a mancare. In Atlantico, e specialmente nel 1939, nessuno si aspettava la disponibilità di approdi. Il supporto spagnolo, anche se ricercato, non si verificò mai e quindi non c'erano approdi disponibili. Quindi, la Regia Marina organizzò una serie di sortite atlantiche che sarebbero iniziate da basi nazionali per poi riuscire a passare lo Stretto di Gibilterra. Da parte loro, i tedeschi dovevano partire da basi in Germania che consentivano missioni di pochi giorni. Gli italiani, come si è detto, avevano a che fare con lo Stretto di Gibilterra e la presenza delle difese britanniche che, nonostante il supporto spagnolo, davano alla Royal Navy un controllo dominate sullo stretto passaggio.

La caduta della Francia e la susseguente occupazione dei porti atlantici cambiarono radicalmente lo scenario. La marina tedesca cercò di approfittare della situazione, ma la disponibilità di sommergibili oceanici era alquanto limitata. A causa delle limitazione imposte dall'armistizio di Versailles, la Germania dovette sviluppare i suoi sommergibili in altre nazioni, in gran parte l'Olanda, e preferì piccoli battelli con poca abitabilità ma il massimo carico di guerra, mentre i battelli italiani avevano molta più abitabilità. Avvalendosi delle discussioni che avvennero a Friedrichshaffen il 20 e 21 giugno 1939 dopo la firma del patto d'acciaio, i tedeschi richiesero che alcuni battelli italiani fossero trasferiti in Atlantico. Durante queste riunioni, l'Ammiraglio Cavagniari promise una presenza italiana. Andrebbe ricordato che la Germania e l'Italia condussero guerre parallele e che, in pratica, l'accordo sui sommergibili fu la prima forma di collaborazione diretta.

Per una Marina costruita per la guerra in Mediterraneo, e contro la Francia, questa presenza rappresentava uno sforzo, ma i cantieri italiani avevano sviluppato varie classi di sommergibili specificatamente disegnati per operazioni oceaniche. Sin dalla fine degli anni venti e l'inizio degli anni trenta, l'Italia aveva cominciato a costruire battelli di grande dislocamento capaci di attraversare lo Stretto di Gibilterra e raggiungere l'Atlantico per lunghe missioni lungo le coste francesi ed africane. Durante le discussioni del 1939, i clamorosi successi degli U-boot durante la Grande Guerra erano ancora vivi nelle menti degli strateghi navali e la possibilità di raggiungere la gloria era irresistibile.

Quello che accomunava gli interessi delle due marine, soprattutto nel campo sottomarino, era ben poco. Anche se l'Italia aveva una flotta numerosa, non aveva quella base industriale che consentì alla Germania di avere un programma di costruzioni navali di massa. Durante il conflitto, mentre l'Italia fu in grado di produrre a stento 40 battelli, la macchina bellica tedesca ne produsse oltre 1,000. Sorprendentemente, con lo sviluppo della guerra, la Germania che all'inizio aveva chiesto la collaborazione dei sommergibili italiani

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