Dalla metà degli anni venti si cominciò a sentire l’esigenza di istallare su tutte le maggiori unità della Regia Marina delle catapulte che permettessero il lancio degli aerei con la nave in moto, anche in presenza di onde di altezza tale da non permettere il decollo dalla superficie del mare. Nel contempo la catapulta cominciava ad uscire dalla sua fase sperimentale e venivano prodotti i primi esemplari operativi. Si trattava in genere di strutture a traliccio, brandeggiabili o fisse, sulle quali scorreva un carrello di lancio al quale era fissato l’aereo, generalmente un idrovolante, il carrello era accelerato mediante l’immissione di aria compressa all’interno di appositi cilindri di espansione. L’effetto combinato della velocità del carrello e del vento contrario prodotto dall’avanzamento della nave permettevano all’aereo di decollare.Dopo una serie di prove con vari velivoli (Macchi M18, Piaggio P6 ter, Cant.25 ed altri), verso la seconda metà degli anni trenta si era orientati verso un idrovolante, collaudato nel 34, ed ormai prodotto in serie; si trattava del IMAM RO 43, biplano biposto a galleggiante centrale dotato di non brillanti doti marine ma capace di raggiungere i 300 km/h e i 1000 km di autonomia.
Allo scoppio delle ostilità, dunque l’Italia disponeva di un sol tipo di caccia imbarcato, erano infatti pronti all’impiego sulle varie unità della Regia Marina ben 42 idrovolanti Ro 43. Nonostante successive prove per l’impiego di un bimotore catapultabile da destinare alle corazzate classe “Littorio”, l’incalzare degli eventi bellici costrinse il Ro 43 ad un impegno durissimo che mise a nudo alcune sue deficienze strutturali e rese necessaria la costruzione di una 2° serie che portò il numero totale degli esemplari prodotti a 194.
A guerra ormai inoltrata, ci si rese conto delle enormi limitazioni che l’uso di questo tipo di aereo comportava. Il suo impiego si limitava esclusivamente all’esplorazione ed all’osservazione del tiro, essendo infatti sprovvisto di un seppur minimo carico bellico, non era possibile impiegarlo in alcuna azione di attacco contro il naviglio nemico, inoltre l’idrovolante a missione conclusa doveva ammarare, condizioni meteomarine permettendo, nelle vicinanze della nave ed essere recuperato, a nave ferma, mediate apposite gru. La complessità di queste operazioni faceva sì che si preferisse far rientrare gli aerei in un idroscalo costiero con successivo reimbarco con la nave in porto, ciò praticamente consentiva, per ogni singola navigazione, l’utilizzo di ogni velivolo imbarcato per un’unica missione.
Quando, dopo la scontro di Capo Matapan, l’assenza di navi portaerei comincio ad incidere pesantemente sulle sorti della Squadra in mare aperto, si cerco di correre ai ripari affiancando all’idro Ro 43 un caccia terrestre catapultabile. La scelta cadde sul Reggiane Re 2000, dotato di buona velocità (530 km/h) e discreta autonomia.
Dopo alcune prove di catapultamento sulla nave portaidrovolanti “G. Miraglia”, alla fine del 42 una serie di sei Re2000 opportunamente modificati denominati Re 2000 “Catapultabile” comincio ad essere imbarcata sulle corazzate classe “Littorio”.
Al 8 Settembre 1943, data dell’armistizio, i Ro 43 imbarcati erano 19 mentre 20 erano in forza alle Squadriglie Forze Navali, mentre i Re 2000 “Catapultabile” erano 6, la corazzata Roma ne aveva a bordo due, la Vittorio Veneto e l’Italia (ex Littorio) uno ciascuna.
A compendio di questa breve descrizione sugli aerei italiani imbarcati durante la II G.M. va ricordato il seppur tardivo tentativo di riparare alla mancanza di protezione aerea in alto mare prevedendo la realizzazione della nave portaerei “Aquila”, che la fine delle ostilità colse in fase di avanzata realizzazione nel porto di Genova. La nave doveva imbarcare circa 51 caccia tipo Reggiane Re 2001 modificati per il decollo e l’atterraggio sul ponte di volo.